Non c’è alcuna disparità di trattamento, di rilievo costituzionale, tra la possibilità della donna di abortire o dichiarare la sua volontà di mantenere l’anonimato perché non vuole essere madre e l’uomo che non può ingiustificatamente rifiutare di sottoporsi al test di paternità in quanto ciò rappresenta indizio decisivo che fa scattare l’accertamento giudiziale.
Ciò è quanto ha statuito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 13880/2017. In quel caso, un padre convenuto in giudizio dalla presunta figlia affinché fosse accertata e dichiarata giudizialmente la sua paternità naturale, aveva affermato di non ricordare di aver avuto una relazione con la madre della donna e, comunque, non essere mai stato informato della nascita della figlia.
Mentre il Tribunale ha accolto le sue deduzioni, in grado di appello la Corte ha disposto una CTU genetica alla quale l’uomo ha rifiutato di sottoporsi, adducendo ragioni di salute.
Da tale rifiuto, ritenuto ingiustificato, il Collegio ha ritenuto integrata la prova della fondatezza della domanda di accertamento di paternità.
La Corte di Cassazione, oltre a confermare la sentenza d’appello, ha altresì rigettato le censure di incostituzionalità mosse dall’uomo, precisando che “le situazioni della madre e del padre non sono paragonabili, perché l’interesse della donna ad interrompere la gravidanza o a rimanere anonima non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale”. Dunque, la scelta legislativa di regolare «in maniera differenziata» situazioni tra loro diverse è ragionevole e non può «lamentarsi alcuna disparità di trattamento».
Cassazione Civile, 01.06.2017, n. 13880
Cassazione Civile 01 giugno 2017 n. 13880