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I criteri per rendere effettivamente condiviso l’affidamento della prole

Nella pronuncia in commento il Tribunale di Salerno – sulla scorta delle linee-guida previste nei mesi scorsi dal Tribunale di Brindisi – ha espresso e concretizzato i più recenti criteri interpretativi dell’affidamento condiviso, enunciando nella motivazione le ragioni che, sulla scorta della novella del 2006, inducono alla regolamentazione adottata nella fattispecie concreta.

Il caso trattato dal Tribunale riguardava una bimba di 4 anni collocata prevalentemente presso la madre, la quale ne gestiva unilateralmente benessere e salute, la faceva partecipare alla sua vita con il nuovo partner e al contempo teneva comportamenti ostativi al rapporto con il padre, ignorando le previsioni di incontri ed escludendolo da compiti di cura, giungendo a chiederne l’esclusione dall’affidamento e la decadenza dalla responsabilità genitoriale.

Il Giudice ha precisato il fine dell’affidamento condiviso, che “è inequivocabilmente finalizzato alla realizzazione dell’interesse morale e materiale della prole e per questa ragione, dopo e nonostante la crisi della coppia, i provvedimenti giudiziari mirano alla conservazione (o al ripristino) di un paritario rapporto dei minori con entrambi i genitori (un diritto soggettivo, di per sé ovviamente coincidente con il loro interesse), il che comporta l’attribuzione a ciascuno di essi di pari opportunità quando abbiano capacità genitoriali omogenee (cfr., Tribunale Roma, sez. I, 20/01/2015 n. 1310; Corte appello Bologna, sez. I, 14/04/2016 n. 625) o, viceversa, all’attribuzione a ciascuno di essi di compiti di cura e di tempi di frequentazione differenti quando in concreto ciò meglio realizzi i diritti del minore; sempre che non esistano particolari ed eccezionali circostanze ostative.

Pertanto per realizzarlo è necessario un intervento del giudice: “Proprio quando uno dei genitori tende ad espellere l’altro e ad occupare tutto lo spazio decisionale della vita quotidiana è indispensabile che il giudice eviti la frattura tra genitore accudente e genitore pagante e ristabilisca l’equilibrio all’interno della coppia genitoriale senza distinzione di ruolo. Ciò non potrà che migliorare il rapporto del figlio con ciascun genitore”.

Nel fare ciò il giudice deve avere come primario riferimento l’interesse del minore di cui al secondo comma dell’art. 337-ter c.c. al quale giustamente si ispira tutta la normativa, nazionale come estera, che disciplina la famiglia,che si concretizza nel rispetto dei suoi diritti  indisponibili “atteso che il concetto di diritto è più forte di quello di interesse e di regola lo comprende.”

E l’analisi dei compiti che in linea di principio il giudice è tenuto ad assolvere si completa con una loro puntuale elencazione: “In concreto, caso per caso ed in funzione dell’età dei minori, il giudice, lasciando comunque ai genitori la facoltà di assumere ulteriori accordi, determina la residenza anagrafica dei figli e i tempi e le modalità della frequentazione, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli; determina inoltre in caso di disaccordo la residenza abituale del minore”.

Ne consegue, secondo il Tribunale salernitano, che la collocazione prevalente generalmente disposta dai giudici, con la conseguente discriminazione tra i genitori e l’introduzione di uno squilibrio nei rapporti del figlio con ciascuno di essi, rappresenta la più diretta e macroscopica negazione rispetto ai principi della riforma del 2006, tra i quali in primis il diritto del minore ad una presenza dei propri genitori in linea di principio paritetica”.

Non giustifica, peraltro, la figura del genitore collocatario l’obbligo legislativo di determinare (concordemente o giudizialmente) la “residenza abituale” del minore, poiché “non essendo sostenibile che il riferimento ad essa comporti – addirittura in tutti i casi e per tutte l’età dei minori – la creazione di un genitore principale attivamente coinvolto nei compiti di cura, educazione e formazione della prole e di un genitore marginale o ludico senza effettiva partecipazione alla quotidianità dei figli, ma anche perché “la determinazione della residenza abituale è del tutto autonoma (e successiva) rispetto alla determinazione dei tempi e delle modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore, poiché “non coincide con le nozioni civilistiche e amministrative di domicilio e/o di residenza anagrafica, ma va individuata, con riguardo alla situazione di fatto esistente all’atto dell’introduzione del giudizio, tenendo conto del luogo dove si è svolta in concreto e continuativamente la vita dello stesso.” (Cass. S.U., 22/03/2017, n. 7301). Dove per “luogo” è da intendere l’ambito territoriale esteso, come regione o nazione.

Quindi, a seguito della determinazione dei tempi e della modalità della presenza dei minori presso ciascun genitore il Tribunale fissa la residenza anagrafica del minore presso uno di essi, fissa il domicilio del minore presso entrambi i genitori, se del caso attribuisce la casa familiare, attribuisce specifici obblighi economici a carico di ciascun genitore e individua un eventuale assegno perequativo in favore di uno di essi.

Sotto altro profilo il Tribunale ha smontato un altro punto fermo della giurisprudenza attuale, ovvero che mantenere sempre e comunque i figli a trascorrere più tempo possibile entro quelle mura tra le quali magari i genitori si sono quotidianamente scontrati per anni sia di indiscutibile vantaggio per i figli e non da valutare caso per caso. Concludendo che, visto che l’attaccamento dei figli alla casa in generale è da verificare, se la frequentazione è mediamente paritetica lasciandola al proprietario si ottiene il vantaggio sicuro di eliminare un motivo di risentimento tra i coniugi, consentendo comunque ai figli di trascorrervi metà del tempo.

Il tribunale entra anche nel merito della fondamentale scelta della forma del mantenimento, evidenziando che ciascuno dei genitori è pariteticamente tenuto a svolgere compiti di cura a vantaggio dei figli e che l’eventuale squilibrio economico dovrà riflettersi solo sull’entità del sacrificio materiale e non comportare né l’esonero né l’emarginazione di fatto di alcuno dei due; fatti salvi ovviamente i casi di impossibilità materiale, come quelli legati alla distanza. Il che vuole anche dire che neppure il caso limite della famiglia monoreddito esenta uno dei genitori dall’accudimento, né il più abbiente nè il meno abbiente, dovendosi scartare sia l’ipotesi che il produttore di reddito provveda a tutto, sia che dia all’altro (nella prassi attuale “il collocatario”) l’intera somma, o quasi, che serve a coprire i bisogni: l’assegno perequativo, previsto dal legislatore, sarà dunque residuale.

Quanto alle spese straordinarie, il Tribunale ritiene debba essere fatta una distinzione tra quelle prevedibili e non. In particolare, le spese prevedibili (ad esclusione di quelle legate alla convivenza che vengono sopportate dal genitore con cui il figlio sta in quel momento) possono essere ripartite a priori tra i due genitori attribuendo al genitore più abbiente i capitoli di spesa più onerosi.” Un espediente che permette di evitare il ricorso all’assegno perequativo, ovvero di ridimensionare o sopprimere un meccanismo di contribuzione di per sé decisamente malvisto dalla parte obbligata

E’ stata, dunque, tracciata una linea di rottura con una lunga e radicata tradizione precedente. Il decreto non potrà non rendere obbligatoria una più vasta riflessione su tutti i concetti qualificanti dell’affidamento condiviso, come ruoli genitoriali, domiciliazione, frequentazione, residenza abituale, compiti di cura, forma del mantenimento, assegno perequativo e divisione dei carichi economici. Il tutto alla luce di una nuova fondamentale lettura della relazione fra interesse del minore e suoi diritti.

Tribunale di Salerno, 28.06.2017

Tribunale di Salerno, 28.06.2017