Il giudice può emettere immediatamente la sentenza non definitiva, relativa alla separazione, a prescindere dall’impulso di parte, al fine di evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status
La Suprema Corte ha ribadito il principio, già affermato, secondo il quale il giudice è tenuto a verificare, in base ai fatti obiettivi emersi l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell’altro, la convivenza.
Ove tale situazione di intollerabilità si verifichi, anche rispetto ad un solo coniuge, deve ritenersi che questi abbia diritto di chiedere la separazione.
Pertanto nel giudizio di separazione così come in quello di divorzio il Giudice può pronunciare anche d’ufficio la sentenza non definitiva sullo status.
La Corte ha ritenuto poi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla donna richiamando un pronunciamento del 2010 secondo cui la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché:
– è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze,
– per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 12 giugno – 31 agosto 2017, n. 20666
Presidente Scaldaferri – Relatore Bisogni
Fatto e diritto
Rilevato che:
1. Con ricorso del 23 marzo 2012 il D.d.R.A.P.M. ha adito il Tribunale di Roma per ottenere la separazione giudiziale, con addebito alla moglie R.C.A.M. che si è costituita chiedendo a sua volta la dichiarazione di addebito a carico del marito. Entrambe le parti hanno formulato domande relative al regime di affidamento dei figli e al loro mantenimento. La R.C. ha chiesto altresì la imposizione al mensile di D.d.R. di un assegno mensile di mantenimento in suo favore.
2. Il Tribunale con sentenza non definitiva del 23/24 ottobre 2012 ha pronunciato la separazione giudiziale.
3. Ha proposto appello la R.C. per l’errata valutazione circa la sua adesione alla domanda di separazione e la sua rinuncia ai termini di cui all’art. 109 c.p.c.; per il mancato accertamento circa l’effettiva irreversibilità della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza; per la asserita incostituzionalità della disciplina che consente la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva in quanto in contrasto con gli artt. 3, 29 e 111 della Costituzione.
4. D.d.R.A.P.M. si è costituito e ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità per difetto di interesse all’impugnazione e la condanna della R.C. ex art. 96 c.p.c..
5. La Corte di appello ha respinto l’appello rilevando che con la novella introdotta con legge n. 263/2005 dell’art. 709 bis c.p.c. sussiste ormai l’obbligo e non più la sola facoltà per il giudice di pronunciare anche con sentenza non definitiva sullo status e ciò a prescindere dall’impulso di parte (Cass. civ. n. 10484/2012). Ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale e ha ritenuto accertata in base alle prospettazioni delle parti e all’esito del tentativo di conciliazione l’intollerabilità della convivenza. Ha infine condannato la R.C. ex art. 96 comma 3 c.p.c..
6. Ricorre per cassazione la R.C. affidandosi a sei motivi con i quali ribadisce di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rileva la mancata prospettazione delle pretese ragioni di intollerabilità della convivenza, contesta l’omessa valutazione in ordine alla prospettata necessità di prosecuzione del processo prima della sentenza dichiarativa della separazione, contesta infine la sussistenza dei presupposti per la sua condanna ex art. 96 c.p.c. e al pagamento delle spese processuali.
7. Si difende con controricorso il D.d.R. .
Ritenuto che:
8. La disposizione di cui all’art.709 bis cod.proc. civ., come definitivamente modificata dall’art.1, comma 4, della legge 25 dicembre 2005, n. 263, sancisce in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo “status”, la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio “status” (Cass. civ., sez. V1-1, n. 10484 del 22 giugno 2012).
9. Come affermato sin dal 1992 (Cass. civ., sez. I n. 7148 del 10 giugno 1992) e ribadito anche di recente (Cass. civ., sez. I, n. 8713 del 29 aprile 2015) la situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi.
10. Per ciò che concerne la sollevata questione di costituzionalità questa Corte ha già affermato (Cass. civ. sez. I, n. 9614 del 22 aprile 2010) che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il Tribunale è tenuto a pronunciare d’ufficio quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, ed alla quale faccia seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un’arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 898 del 1970, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l’effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell’assegno di divorzio. Pertanto, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 9, della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dell’art. 8, della legge n. 74 del 1987), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost..
11. Per ciò che concerne gli ultimi due motivi di ricorso attinenti alla contestazione della condanna alle spese del giudizio di appello la Corte ritiene di aderire all’indirizzo giurisprudenziale più recente (Cass. civ. sez. VI-3 n. 9532 del 12 aprile 2017) secondo cui il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c..
Conseguentemente anche tali motivi devono ritenersi infondati sebbene non possano ritenersi sussistenti – in ragione dello specifico contrasto giurisprudenziale (Cass. civ. sez. II n. 20838 del 14 ottobre 2016) – i presupposti per una condanna della ricorrente ex art. 96 comma 3 relativamente al presente giudizio.
12. Il ricorso va pertanto respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in 5.100 Euro, di cui 100 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma l bis dello stesso articolo 13.