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Il figlio rinuncia ad un lavoro nell’azienda paterna; il padre deve continuare a mantenerlo

Il tentativo di inserire il figlio nell’azienda paterna, fallito a causa della forte conflittualità con il genitore, non esonera il padre dal continuare a corrispondere un assegno di mantenimento in favore del ragazzo.

La Corte di Cassazione ha affermato tale principio a seguito del ricorso di un padre, il quale, sia avanti il Tribunale sia in sede di appello, aveva visto riconosciuto a suo carico l’obbligo di mantenimento del figlio ormai maggiorenne.

La Suprema Corte, tuttavia, facendo proprie le conclusioni della Corte d’Appello, non ha ravvisato nel fallito tentativo di inserimento del figlio universitario nell’azienda paterna una condotta indolente tale da far venir meno il diritto del ragazzo ad essere manutenuto, poiché non ancora economicamente autosufficiente.

La Cassazione, infatti, ha evidenziato come nel corso dei precedenti gradi di giudizio fosse emerso come l’esclusione della sussistenza della colpevole inerzia del figlio fosse giustificata dal difficile rapporto col padre (dovuto in parte alla brusca separazione con la madre) e dalla forte differenza d’età tra i due soggetti (settant’anni di differenza); circostanze tali da causarne l’impossibile collaborazione e convivenza lavorativa.

La Corte ha precisato, peraltro, come detta soluzione non fosse contraria ai principi pacificamente affermati dalla Giurisprudenza in tema di mantenimento del figlio: invero, l’inserimento di un figlio ancora studente universitario nell’azienda del padre, con il quale egli sia in palese conflitto, non può essere considerata un’occasione lavorativa ordinaria, bensì una fase dialettica del rapporto tra genitore-figlio, non potendo assumere pertanto il significato di un normale inserimento lavorativo né, di conseguenza, un problematico approccio ad esso.

La Corte di Cassazione, dunque, nel rigettare il ricorso, ha confermato l’obbligo di mantenimento a carico del padre in favore del figlio maggiorenne.

Cassazione Civile, Sez. I, 21.11.2017, n. 30540

Cassazione Civile, 21-11-2017, n. 30540