Al fine di configurare una convivenza more uxorio, tale da ritenere legittimo il diritto al risarcimento del danno in capo ad un convivente in caso di morte dell’altro derivante da fatto illecito, il requisito della coabitazione assume un valore recessivo e non dirimente, essendo sufficiente che due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale.
La Cassazione ha affermato tale principio decidendo in merito al ricorso presentato da una donna che, sia in primo che in secondo grado, si era vista respingere la domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla perdita del proprio compagno, il quale era deceduto dopo essere precipitato nel vano ascensore di un immobile nel quale erano in corso lavori di manutenzione e presso il quale lavorava.
Tribunale e Corte d’Appello, infatti, avevano ritenuto che non vi fosse prova sufficiente dell’esistenza del rapporto di convivenza stabile tra i due: nello specifico, non era stato messa in dubbio l’esistenza di un rapporto affettivo e di una relazione di coppia, ma era stato dato rilevo fondamentale al fatto che il defunto e la compagna risultassero residenti in Comuni diversi al momento della morte dell’uomo.
La donna, pertanto, si è rivolta alla Cassazione, la quale ha ritenuto la ricostruzione e le conclusioni della Corte d’Appello errate.
La Suprema Corte, invero, ha rilevato che certamente al convivente di fatto deve essere riconosciuta, in caso di perdita del convivente, una tutela uguale a quella spettante al soggetto coniugato e che la convivenza tutelabile è quella all’interno della quale, all’elemento soggettivo della relazione affettiva stabile, si accompagna l’elemento oggettivo della reciproca, spontanea assunzione di diritti e di obblighi: tra gli elementi che identificano la convivenza di fatto, la giurisprudenza ha indicato nella coabitazione un indice rilevante e ricorrente, ma questa non imprescindibile al punto da escludere una convivenza in ipotesi di sua mancanza.
A tale ultimo riguardo si è precisato che il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, soprattutto alla luce del mutato assetto della società, collegato alle conseguenze di una prolungata crisi economica (seppur non originato solo da queste): al giorno d’oggi, infatti, capita spesso che per esigenze di diverso tipo (lavorative, assistenziali, ecc.) i conviventi trascorrano del tempo in case diverse pur non venendo con ciò meno l’esistenza di una famiglia di fatto o di una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti.
Alla luce di questi elementi, il dato della coabitazione “deve essere inteso come semplice indizio o elemento presuntivo della esistenza di una convivenza di fatto, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati e non come elemento essenziale di essa, la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza“.
Nel caso specifico esaminato dalla Corte – a sostegno della convivenza – la compagna aveva allegato molti elementi, tra cui l’esistenza di un conto corrente comune, il fatto che presso la sua abitazione vi fosse il calendario su cui il compagno indicava i giorni lavorati e le buste paga e molto altri. Invece, la sentenza impugnata, aveva ritenuto insussistente la convivenza per il solo fatto, ritenuto dirimente, che il compagno avesse lasciato la propria residenza anagrafica nel Comune dove vivevano il figlio ed il nipote.
La Corte di Cassazione ha pertanto accolto il ricorso della convivente.
Cassazione Civile, 13.04.2018, n. 9178
Cassazione Civile, 13-04-2018 n. 9178