I messaggi di posta elettronica, assieme a foto e relazione investigativa, provano che la donna ha avuto durante il matrimonio una relazione sentimentale con un altro uomo.
La Corte ribadisce il consolidato principio secondo cui, ai fini dell’addebito della separazione, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618; ed ancora, più di recente, Cass., ord. 14 agosto 2015, n. 16859).
In questa cornice la Corte afferma che anche la posta elettronica può far emergere la relazione extraconiugale. Il relativo materiale è utile a giudici per addebitare la separazione della coppia.
Nel caso in esame magistrati della Cassazione respingono l’ipotesi difensiva che «i messaggi di posta elettronica, prodotti in giudizio, non provino una relazione adulterina ma, semmai, una infatuazione a senso unico».
Significativo il contenuto delle e-mails, sostenuto da «fotografie» e da «una relazione investigativa». Tutto il materiale a disposizione, concludono i giudici, certifica che «la donna ha instaurato durante il matrimonio una relazione sentimentale con un altro uomo».
Di conseguenza, è indiscutibile che la rottura della coppia stata causata dal comportamento tenuto dalla moglie.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 19 maggio – 23 giugno 2017, n. 15811
Presidente Genovese – Relatore Nazzicone
Rilevato
– che parte ricorrente ha proposto ricorso, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 26.2.2015, che ha respinto l’impugnazione proposta contro la decisione del Tribunale di Monza relativa, per quanto ancora rileva, all’addebito della separazione personale a G.C., per violazione del dovere di fedeltà coniugale, assegnando a D.C., affidatario della figlia non economicamente autosufficiente, la casa coniugale;
– che è stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti;
– che la parte ricorrente ha depositato la memoria;
Considerato
– che il primo motivo, vertente sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., è manifestamente inammissibile, insistendo sulla tesi della mancata prova di una relazione extraconiugale della moglie, alla cui dimostrazione, nell’assunto della ricorrente, non sarebbero sufficienti le e-mails che sono alla medesima giunte mediante l’indirizzo di posta elettronica dell’impresa familiare condotta dal Ca.: in tal modo, tuttavia, essa ripropone il giudizio di fatto, estraneo alla presente sede di legittimità;
mentre non coglie nel segno la censura di errata applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. sulla non contestazione del convenuto, posto che la corte del merito non ha fondato la sua decisione sull’istituto della “non contestazione”, di cui all’art. 115, primo comma, seconda parte cod. proc. civ., limitandosi a ravvisare la piena prova documentale dell’adulterio, semplicemente “non adeguatamente contrastata” – vale a dire, non oggetto di efficace prova in contrario – da parte della moglie;
– che il secondo motivo, vertente sulla deduzione di violazione e falsa applicazione degli artt. 151, 143 e 2697 cod. civ., è manifestamente inammissibile, in quanto, sotto l’egida del vizio di violazione di legge, intende riproporre parimenti un giudizio di fatto, con riguardo all’allegata circostanza che le e-mails, prodotte in giudizio dal marito, non provano una relazione adulterina, ma semmai una infatuazione a senso unico: giudizio palesemente riservato alla valutazione discrezionale del giudice del merito;
– che, in definitiva, la corte del merito – richiamando il consolidato principio secondo cui, ai fini dell’addebito della separazione, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618; ed ancora, più di recente, Cass., ord. 14 agosto 2015, n. 16859) e facendo corretta applicazione dei principi dell’onere probatorio in materia, secondo cui grava sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre, è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà (Cass. 14 febbraio 2012, n. 2059), nonché valutando tutte le risultanze probatorie del processo nel caso concreto (oltre ai messaggi di posta elettronica, fotografie ed una relazione investigativa) – ha concluso per l’esistenza di una prova piena documentale di quell’imputabilità alla moglie, per avere instaurato durante il matrimonio una relazione sentimentale con un altro uomo, espletando il giudizio di fatto riservato alla medesima corte;
– che la condanna alle spese di lite segue la soccombenza;
– che occorre provvedere alla dichiarazione di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.