Il danno non patrimoniale subito a seguito della perdita di un congiunto non può considerarsi in re ipsa (in se stesso) ma deve essere dedotto e provato, sebbene con il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni ma, pur sempre, sulla scorta di elementi oggettivi forniti dal familiare danneggiato.
È quanto ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 907 pubblicata il 17 gennaio scorso.
Nel caso deciso, i prossimi congiunti di un uomo, deceduto a seguito di un incidente sul lavoro, avevano agito in giudizio in proprio nei confronti del datore di lavoro del proprio familiare al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita parentale.
A seguito della chiamata in causa della compagnia di assicurazioni, che aveva garantito la responsabilità civile della ditta datrice di lavoro, il Tribunale aveva accolto la domanda, condannando gli stessi – in solido tra loro – a risarcire i danni patiti in ragione del rapporto parentale intercorrente tra i superstiti (coniuge, figli, madre e fratelli) e con quantificazione effettuata sulla scorta delle Tabelle diffuse ed applicate dal Tribunale di Milano per il risarcimento del danno in ipotesi di perdita di congiunto.
Proposta impugnazione avverso detta sentenza, la Corte d’Appello aveva confermato le statuizioni di primo grado, richiamandosi ad un precedente orientamento secondo cui, nel caso di morte di un congiunto legato da uno strettissimo legame parentale o di coniugio – come può essere il genitore, il coniuge ed il figlio o il fratello – il danno dovuto alla perdita del congiunto è presunto, dovendosi ritenere che nella ordinarietà delle relazioni umane i parenti stretti sono fra loro legati da vincoli di reciproco affetto e solidarietà in quanto facenti parte dello stesso nucleo familiare, senza che i familiari siano onerati di dimostrare relazioni di convivenza o di vicendevole affetto e frequentazione.
La ditta datrice di lavoro ha, dunque, proposto ricorso in Cassazione, la quale, ripercorrendo alcuni altri precedenti orientamenti giurisprudenziali in materia, ha ribadito che il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, quale tipico danno – conseguenza non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non è in re ipsa) e, come tale, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento; tuttavia trattandosi di pregiudizio che si proietta nel futuro è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire.
Secondo la Corte, inoltre, ai fini della sua liquidazione, deve tenersi conto del grado di parentela, dell’entità numerica del nucleo familiare, nonché dell’eventuale convivenza con la vittima, delle sue abitudini di vita, di quelle della famiglia e di ogni ulteriore circostanza utile allo scopo indicata dal danneggiato.
Una tale tutela – ha proseguito la Cassazione – si estende anche alla lesione dei diritti inviolabili della persona e della famiglia, costituzionalmente protetti (artt. 2, 29 e 30 Cost.), che tuttavia non sono assimilabili ad una perdita economica bensì personale, la quale si estrinseca nella definitiva privazione del godimento e delle relazioni interpersonali con il congiunto, immediato effetto della lesione dell’interesse protetto. In ogni caso, anche in presenza di tali lesioni, è onere del danneggiato provare il conseguente danno, anche ricorrendo alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.
Ciò premesso, nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato come il Giudice d’appello non si fosse attenuto a detti principi, soprattutto affermando che i parenti della vittima (figlio, fratello e coniuge) non avrebbero dovuto provare la convivenza ed il vicendevole affetto e frequentazione con la stessa.
Il ricorso promosso dal datore di lavoro è pertanto stato accolto.
Cassazione Civile, 17.01.2018, n. 907
Cassazione Civile, 17-01-2018, n. 907